Perchè sei diventata attivista?
Io sono un’attivista dal 2011, da quel momento ho iniziato a riconoscermi come tale. È successo dopo il mio coming out, come donna che amava una donna. Non avevo utilizzato nessuna definizione specifica, nemmeno mi definivo una donna, semplicemente amavo una donna. Purtroppo la mia famiglia inizialmente ha reagito molto male, allontanandomi da casa. Dopo varie peripezie sono arrivata ad Arcigay Napoli, associazione di cui ho fatto parte fino a luglio 2022 – oggi sono un’attivista indipendente. L’ associazione è diventata innanzitutto un luogo dove c’era altra gente come me. Non mi sentivo più sola, o comunque mi sentivo sola insieme a qualcun altro. Sentivo che quel disagio che provavo in una società che mi faceva capire che c’era qualcosa di sbagliato in me, era condiviso con altre persone che avevano la mia stessa esperienza. Ho trovato una casa, un posto sicuro dove studiare, utilizzare il computer, fare aperitivo, parlare, fare tantissime cose e a volte anche dormire perché all’inizio ero in difficoltà e non avevo un posto dove stare.
Poi ho iniziato a sentire per la prima volta la parola “attivismo”. Io ho una formazione molto cattolica, sono cresciuta in Chiesa e sono ancora credente, per cui pensavo che quello che facevo fosse volontariato, semplicemente aiutare, come facevo all’azione cattolica. Ma ho iniziato ad approcciare a questa parola e mi è piaciuta, più del termine “volontariato”, che invece aveva più a che fare con l’assistenzialismo. Anche perché io ero una persona che aveva chiesto aiuto e allo stesso tempo davo aiuto: ero attiva, quindi la parola “attivismo” mi rappresentava meglio.
Quindi è iniziato tutto così, e quello che mi aveva spinta a farlo era il bisogno di riconoscere una dignità ad un’esperienza, ad un’identità. Ma posso dire di essere attivista quando ho acquisito la consapevolezza che c’era qualcosa che non andava nella società, non in me. Poi ovviamente queste consapevolezze sono arrivate con il tempo, perchè ho dovuto fare i conti con l’omofobia interiorizzata. È stato un percorso lungo e ho avuto la fortuna di potermi confrontare con delle persone che questo livello di consapevolezza già lo avevano acquisito, anche perchè erano più grandi di me. Io ero minorenne ed iniziavo ad imparare che c’erano dei diritti che non mi venivano riconosciuti, ho iniziato a dare un nome alla mia esperienza, alla mia identità, a riconoscere la mia dignità e a rivendicare delle istanze, piano piano, ascoltando, a volte imitando, soprattutto all’inizio. Mi sono trovata in piazza con un megafono come se l’avessi fatto da tutta la vita, un po’ forse per carattere e un po’ per la rabbia che avevo. Ero molto arrabbiata e questo mi aveva dato una grande carica. Quando andavo in piazza sentivo di avere tante cose da dire.
Ho iniziato quindi a prendere la parola, però allo stesso tempo potevo parlare ad altre persone come me, riconoscerci e costruire una sorta di comunità. Questa è la cosa straordinaria che è successa. Da un lato la presa di consapevolezza e dall’altra la diffusione di un messaggio nello spazio pubblico, così come poi sui social. Oggi ci sono tante persone che pensano di poter fare attivismo sui social, io penso che sia uno degli strumenti e mi preoccupa se poi si pensa che i social possano essere l’unico strumento per fare attivismo. Credo che il corpo nello spazio pubblico sia importante.