Agromafie e caporalato con Diletta Bellotti

Diletta-Bellotti

Nata a Roma nel 1995 e cresciuta sempre nella capitale, laureata in Scienze Politiche con una specializzazione sui diritti umani e le migrazioni nel 2019 con una tesi sul caporalato. Lavora adesso per la Fondazione Osservatorio Agromafie, occupandosi di agromafie e caporalato.

Perchè sei diventata attivista? Cosa ti ha spinto a muoverti in prima persona per il caporalato?

Ho iniziato ad interessarmi al caporalato quando ho lavorato alla mia tesi sul primo movimento migrante del 2011 nato nella masseria di Boncuri a Nardò, in Puglia. La tesi cercava di capire perché il movimento, sebbene fosse stato un successo – tanto da portare ad una legge contro il caporalato nel 2011 poi modificata nel 2016 – non ha ricevuto abbastanza attenzione mediatica o abbastanza spillover effect, ovvero una reazione a catena con la nascita di movimenti simili.

Quando si sta nell’accademia in ambito dei diritti umani è molto comune avere un approccio che io ora riconosco come neocolonialista, un po’ pietista, un po’ da salvatore bianco, quello che si chiama “white saviour industrial complex”, cioè il complesso della salvatrice, di dover andare in altri luoghi del mondo e aiutare a risolvere dei problemi. È un tipo di bias abbastanza facile da avere se si studiano queste materie, perché deriva da come ci vengono raccontate le cose.  

Durante il periodo della tesi mi rendevo conto che il tema del caporalato veniva percepito con difficoltà, c’era pochissimo materiale, non c’era quasi niente in inglese nel 2018 e già questo creava un problema, era diventato molto complicato. Mi chiedevo “a cosa stai facendo da megafono se non hai materiale?”. 

Quindi ho finito in tutta fretta questa tesi, anche perchè avevo perso la fiducia nell’accademia. Mi accorgevo che da un lato c’era il tempo dell’accademia e dall’altro il tempo dei movimenti che sappiamo essere molto diversi e già questo era abbastanza alienante per me. Per cui ho finito la tesi e sono partita. 

Sono andata per un periodo in un insediamento informale, ovvero una baraccopoli nel foggiano, a Borgo Mezzanone, a 15 minuti da Foggia, che ai tempi ospitava circa 3000 persone, tutti migranti con uno status irregolare, che si trovava accanto ad un CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo e Rifugiati) . 

A quel punto volevo posizionarmi politicamente e capire che tipo di ruolo io potessi avere rispetto a quello che avevo visto. Così ho lanciato una campagna di informazione e sensibilizzazione assieme ad altre persone, e abbiamo fatto anche una raccolta fondi. Era il luglio 2019 e abbiamo viaggiato per tutta l’Italia toccando le città più grandi per un mese. Da questa esperienza è nato il Collettivo Fango, che noi chiamiamo collettivo di scrittura ribelle e che nasce dall’urgenza di creare un archivio di tutto quello che concerne il caporalato e tutte le sue intersezioni, in 4 lingue europee. Inoltre facciamo formazione in giro per l’Italia. Con il collettivo si è creata una dimensione un po’ più corale attorno a questi temi. 

Quali sono le cose fondamentali da sapere sul tema?

Il caporalato è una forma di mediazione illegale del lavoro. Il caporale regola la manodopera percependo una tangente, uno stipendio, irregolarmente. I caporali possono ricoprire vari ruoli, possono semplicemente regolare il lavoro, ovvero smistare i lavoratori, oppure portare la gente, ovvero il caporale autista, etc.

Ma la cosa più importante è che riempie un vuoto. Il vuoto è uno snodo centrale nei lavori irregolari. Dove non ci sono regole, nasce l’irregolarità. Un esempio sono le mafie, anche queste nascono per riempire un vuoto, possono essere considerate un vuoto istituzionale.

Anche il concetto di caporalato è cambiato nel tempo. Si distingue infatti tra classico e globale. Viene definito classico quando si parla di forme di reclutamento “comunitarie”. Quando è nato si reclutava nella propria comunità, nel proprio paese o città. Era sostanzialmente una modalità di sfruttamento, ma comunque aveva un link con la comunità, con le persone che parlavano la stessa lingua, avevano la stessa cultura, etc.

Nel momento in cui entrano in gioco altre etnie, e quindi culture e lingue diverse, si parla di caporalato globale. Potremmo dire che questo tipo di caporalato è emerso a partire dalla dissoluzione della ex Jugoslavia, con l’arrivo di un grande flusso di migranti. È il caporalato di oggi, che ha anche tante modalità del tardo capitalismo, per esempio tante persone vengono reclutate tramite pop up, pubblicità online che propongono di venire in Italia a lavorare. E da lì si organizzano pullman che portano le persone in Italia.

Il caporalato si usa tantissimo in agricoltura e nell’edilizia, ma cercando di capire il rapporto tra il tardo capitalismo e il caporalato lo troviamo in tutto il lavoro che non viene regolato, per questo motivo lo troviamo anche nei sistemi di delivery, ad esempio UberEats è stata commissariata nel 2020 per caporalato. Adesso non più, ma è comunque un esempio. Tra l’altro il delivery funziona a cottimo, che è come storicamente funziona il caporalato.

Diletta Bellotti

Cosa ne pensi dell’attivismo digitale?

Dipende cosa si intende per attivismo digitale. Secondo me è importante stare ovunque ci sono dei dibattiti politici e occupare tutti gli spazi, sia fisici che digitali, con delle rivendicazioni radicali. I social sono anche questo spazio. 

Bisogna essere lì anche per fare rete con altre realtà, con persone che hanno rivendicazioni politiche affini, però poi portare quei network negli spazi fisici, nelle piazze. 

Ad esempio la divulgazione è un’altra cosa, è importantissima, ma è un’altra cosa. 

Poi è importante considerare la deriva neoliberista dei contenuti sui social. Per questo va tracciata la linea dell’anticapitalismo, perchè ovviamente non tutte le persone che fanno attivismo digitale stanno dalla stessa parte, anzi. Se ad esempio fai un post in cui parli di femminismo – qualsiasi cosa voglia dire – con Adidas o con Freeda, non è la stessa rivendicazione. 

Questa linea è stata tracciata e all’interno della bolla è molto visibile la differenza, anche se da fuori può sembrare che si dicano le stesse cose, che siamo tutti dalla stessa parte. Però le persone che hanno idee più liberali vengono ascoltate di più. Gli “attivisti liberali” hanno una visibilità pazzesca, collaborano molto con le multinazionali, fanno cose su Netflix, in tv, etc., ma non fanno mai rivendicazioni reali. Servono più che altro da cassa di risonanza, per sensibilizzare persone del tutto estranee ad alcuni temi, o molto giovani.

Lo spazio online per me serve come spazio di mobilitazione, per mettere in contatto le persone e creare nuove mobilitazioni. In questo senso è importante, per radicalizzare le persone, non per fare informazione, perché quella che si fa sui social non può certo reggere l’alfabetizzazione democratica che bisognerebbe avere in uno stato di diritto.

Che impatto ti proponi di generare con ciò che fai?

Per me è importante avere un impatto positivo anche su poche persone, ma in maniera molto profonda. Io stessa sono stata ispirata e radicalizzata da persone a me care. Ognuno porta un pezzo, anche perché alcune persone possono essere più preparate su alcuni temi, altre su altri. 

L’importante per me è che tutte le persone attorno a me si radicalizzino il più possibile. 

E soprattutto poi tenere alto il livello di moralità che richiede la lotta intersezionale. Perché bisogna riuscire a tenere una struttura in piedi con tutte le difficoltà che comporta e queste cose non le puoi fare da solo.

C’è qualcuno che ti ha ispirato?

I miei nonni paterni, per la loro formazione, per la loro presenza costante negli spazi e nelle lotte degli ultimi 50 anni, e per la loro forte flessibilità mentale. Basti pensare che tutte le rivendicazioni che sono emerse da poco tempo, loro riescono a inglobarle nelle loro pratiche e nella loro sensibilità. Hanno proprio questo tipo di formazione, di ascolto. 

E poi Yvan Sagnet, leader del primo movimento migrante con cui ora collaboro all’interno di No Cap associazione che ha fondato. È stata una grande ispirazione, è una persona di una grandissima sensibilità e umiltà.

Come ti ha cambiato l’attivismo e cosa ti ha dato?

Non credo che mi abbia cambiata, ma mi ha rimesso in contatto con una sensibilità che ho sempre avuto. Sensibilità che mi è arrivata tantissimo dalla letteratura. Sono cresciuta leggendo molto, il che mi ha trasmesso sensibilità diverse e un’empatia molto forte.

Hai scritto il libro “The rebel Toolkit: guida alla tua rivoluzione”. Da dove nasce questo libro, perché è stato importante per te scrivere un libro su questo argomento, a chi è rivolto?

Il libro è indirizzato ai ragazzi delle scuole medie. Nasce dal fatto che ci sono tanti momenti in cui crescendo si entra in contatto con un proprio senso di giustizia, che però poi viene represso per essere in accordo con il mondo. Per me, ad esempio, lo è stato tantissimo sulla questione animale. Poi mi sono alienata da questo, mi sono repressa. E poi l’ho riscoperto come una rivendicazione che ho sempre avuto dentro di me. 

Nasce dalla volontà di capire le storie che erano state importanti per ribellarmi. 

Nel libro ci sono dieci strumenti utili, ad esempio le prassi politiche di altre generazioni, la cura, l’empatia, la paura, il ruolo della rabbia. Il libro è stato pensato per essere nelle scuole, ci sono dei laboratori che spesso faccio. Sono delle spiegazioni sul perchè e come ci si mobilità, momenti di ascolto e condivisione.

Quali suggerimenti daresti ad unə ragazzə che ha voglia di diventare attivista?

Dipende molto dall’età, dal contesto, dalla città in cui si vive. Io sono cresciuta a Roma e qui già alle medie c’erano delle comunità semi politiche attorno a me.

I collettivi sono una cosa molto bella. Se fai delle cose e le fai insieme è più divertente. Per cui sicuramente direi di iniziare a scuola. Ma non sempre è così, non sempre ci sono realtà politiche attive. Quindi in quel caso anche online, che può essere utile per creare network. In fondo basterebbe anche che nelle scuole ci fossero dei programmi di educazione civica seri. Solo in questo modo possiamo crescere.

Consigli di lettura su questi temi?

Frantz Fanon, I dannati della terra, Piccola Biblioteca Einaudi, 2007

Eddo Lodge Reni, Why I’m no longer talking to white people about race, Bloomsbury Publishing, 2017

Alessandro Leogrande, Uomini o caporali, Feltrinelli 2016

Martin Luther King, The trumper of Conscience, Beacon Press, 1968

Marco Omizzolo, Sotto Padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, Fondazione Giacomo Feltrinelli 2019

 

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